sabato 31 marzo 2012

406 - DOMENICA DELLE PALME (ANNO B) - 01 Aprile 2012

Commento
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Marco.


È allo stesso tempo l’ora della luce e l’ora delle tenebre. L’ora della luce, poiché il sacramento del Corpo e del Sangue è stato istituito, ed è stato detto: “Io sono il pane della vita... Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me: colui che viene a me non lo respingerò... E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti l’ultimo giorno” (Gv 6,35-39). Come la morte è arrivata dall’uomo così anche la risurrezione è arrivata dall’uomo, il mondo è stato salvato per mezzo di lui. Questa è la luce della Cena. Al contrario, la tenebra viene da Giuda. Nessuno è penetrato nel suo segreto. Si è visto in lui un mercante di quartiere che aveva un piccolo negozio, e che non ha sopportato il peso della sua vocazione. Egli incarnerebbe il dramma della piccolezza umana. O, ancora, quello di un giocatore freddo e scaltro dalle grandi ambizioni politiche. Lanza del Vasto ha fatto di lui l’incarnazione demoniaca e disumanizzata del male. Tuttavia nessuna di queste figure collima con quella del Giuda del Vangelo. Era un brav’uomo, come molti altri. È stato chiamato come gli altri. Non ha capito che cosa gli si faceva fare, ma gli altri lo capivano? Egli era annunciato dai profeti, e quello che doveva accadere è accaduto. Giuda doveva venire, perché altrimenti come si sarebbero compiute le Scritture? Ma sua madre l’ha forse allattato perché si dicesse di lui: “Sarebbe stato meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”? Pietro ha rinnegato tre volte, e Giuda ha gettato le sue monete d’argento, urlando il suo rimorso per aver tradito un Giusto. Perché la disperazione ha avuto la meglio sul pentimento? Giuda ha tradito, mentre Pietro che ha rinnegato Cristo è diventato la pietra di sostegno della Chiesa. Non restò a Giuda che la corda per impiccarsi. Perché nessuno si è interessato al pentimento di Giuda? Gesù l’ha chiamato “amico”. È veramente lecito pensare che si trattasse di una triste pennellata di stile, affinché sullo sfondo chiaro, il nero apparisse ancora più nero, e il tradimento più ripugnante? Invece, se questa ipotesi sfiora il sacrilegio, che cosa comporta allora l’averlo chiamato “amico”? L’amarezza di una persona tradita? Eppure, se Giuda doveva esserci affinché si compissero le Scritture, quale colpa ha commesso un uomo condannato per essere stato il figlio della perdizione? Non chiariremo mai il mistero di Giuda, né quello del rimorso che da solo non può cambiare nulla. Giuda Iscariota non sarà più “complice” di nessuno.

venerdì 23 marzo 2012

405 - 5^ DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) - 25 Marzo 2012

+ Dal Vangelo secondo Giovanni ( Gv 12, 20-23)

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.


Commento

Il brano del Vangelo odierno segue immediatamente la narrazione dell’ingresso trionfale del Signore a Gerusalemme. Tutti sembrano averlo accolto: persino alcuni Greci, di passaggio, andarono a rendergli omaggio. Questo è il contesto in cui Giovanni comincia il racconto della Passione. Come in natura, il chicco di grano muore per generare una nuova vita, così Gesù, con la sua morte, riconduce tutto quanto al Padre. Non è l’acclamazione del popolo che farà venire il Regno, ma il consenso del Padre. Il ministero e l’insegnamento di Gesù testimoniano che egli è venuto da parte del Padre. Aprirci a lui, significa passare dalla conoscenza di quanto egli ha detto o fatto all’accettazione della fede. La voce venuta dal cielo ci riporta alla Trasfigurazione (cf. la seconda domenica di Quaresima). Ma qui, chi sente questa voce, o non la riconosce per nulla, o la percepisce come una vaga forma di approvazione. Eppure tale conferma era proprio destinata a loro. Questo è anche un richiamo per noi: se non siamo pronti ad ascoltare la parola di Dio, anche noi resteremo insensibili. Tutti coloro che vogliono seguire Cristo, che accettano questa nuova via, scelgono di porsi al servizio di Cristo e di camminare al suo fianco. Il significato pregnante di queste parole - essere sempre con lui dovunque egli sia - ci è stato presentato nell’insegnamento e nel nutrimento spirituale della Quaresima. All’avvicinarsi della celebrazione dei misteri pasquali, portiamo in noi la certezza che servire Cristo significa essere onorati dal Padre.

404 - PADRE PIAMARTA E LE QUATTRO SCODELLE.

Il 3 dicembre 1886 non è solo la data di nascita dell'Istituto Artigianelli (Brescia), ma il giorno in cui don Piamarta diventa "Padre" Piamarta. Così lo chiamano quei primi quattro ragazzi attorno a quattro scodelle, vedendo che per lui non era rimasto nulla: "Padre" è la parola che esce spontanea dal cuore dei ragazzi. Padre, perchè provvede loro il cibo del corpo e dello spirito. "Padri" saranno chiamati i suoi continuatori che, come lui, hanno detto "si" all'invito di dedicare la vita ai giovani.

venerdì 16 marzo 2012

403 - 4^ DOMENICA DI QUARESIMA - LAETARE (ANNO B) - 18 Marzo 2012

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,14-21)

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».


Commento

Tutto il Nuovo Testamento si interessa alla dottrina centrale della redenzione. Il ritorno di ogni uomo e di ogni cosa alla santità, presso il Padre, si compie attraverso la vita, la morte e la risurrezione di Cristo. Il Vangelo di Giovanni pone l’accento in particolare sull’incarnazione. Gesù è stato mandato dal Padre. È venuto in un mondo decaduto e ha portato luce e vita nuova. Attraverso la sua passione e la sua risurrezione, egli restituisce ogni cosa al Padre e rivela la piena realtà della sua identità di Verbo fatto carne. Per mezzo di lui tutto è riportato alla luce. Tutta la nostra vita nella Chiesa è il compimento della nostra risposta a Cristo. L’insegnamento del Nuovo Testamento - e ne vediamo un esempio nella lettura di oggi - è assai preciso. La redenzione è stata realizzata tramite Gesù Cristo, ma per noi deve essere ancora realizzata. Noi possiamo infatti rifiutare la luce e scegliere le tenebre. Nel battesimo Cristo ci avvolge: noi siamo, per così dire, “incorporati” in lui ed entriamo così in unione con tutti i battezzati nel Corpo di Cristo. Eppure la nostra risposta di uomini, resa possibile dalla grazia di Dio, necessita del nostro consenso personale. Quando c’è anche tale accordo, ciò che facciamo è fatto in Cristo e ne porta chiaramente il segno. Diventiamo allora suoi testimoni nel mondo.

lunedì 12 marzo 2012

402 - PADRE GIOVANNI BATTISTA PIAMARTA A MILANO



Per conoscere la vita e le opere di padre Piamarta clicca qui:

http://danilop-passalaparola.blogspot.com/2009/01/beato-giovanni-battista-piamarta.html

401 - PADRE GIOVANNI BATTISTA PIAMARTA E LA NOBILTA’ DEL QUOTIDIANO

A Brescia, città industriosa e in via di industrializzazione, nella seconda metà dell’ottocento,si sviluppa un vigoroso movimento cattolico, teso a ridare Dio alla società e la società a Dio.
La diocesi di Brescia che aveva dato nell’’800 grandi figure di “santi sociali” , dal Pavoni a Crocifissa di Rosa, vede ora sorgere un movimento, ad opera di sacerdoti e laici, con l’obiettivo di
rendere presente la Chiesa in una società. divisa dalla questione romana, sconvolta dalla questione sociale, scossa dai venti anticlericali.
Questo gruppo di cattolici impegnati, ha come animatore monsignor Pietro Capretti, “la gemma del clero bresciano”, un sacerdote esemplare e colto, che ha scelto, lui benestante, di vivere poveramente con i “chierici poveri” a San Cristo, un monastero adattato a seminario, dal quale uscirà un clero da lui formato, sensibile e attivo nei confronti dei poveri e dei loro problemi.
Se la punta avanzata del movimento cattolico bresciano è Geremia Bonomelli, futuro e prestigioso vescovo di Cremona, tra i laici emergono le forti personalità del beato Giuseppe Tovini e di Giorgio Montini.
Il primo è un infaticabile e geniale promotore di nuove forme di cooperazione, di casse rurali, di istituti di credito a sostegno delle opere cattoliche, a partire da quella fondamentale della presenza cristiana nella scuola.
Il secondo è l’avvocato Giorgio Montini, mente organizzativa e capo indiscusso, impegnato a promuovere la presenza dei cattolici nella politica, con quell’ampiezza di vedute che sarà respirata in famiglia dal giovane Giovanni Battista, futuro Paolo VI.
Di questo gruppo, dalle diverse posizioni nei confronti della nuova Italia, fa parte anche l’ umile sacerdote Giovanni Battista Piamarta, che. come gli altri, saliva sovente a San Cristo per confrontarsi con l’amico monsignor Pietro Capretti.

Una ferita mai rimarginata
Il giovane sacerdote saliva a San Cristo, per vedere come fosse possibile risolvere un problema che lo angustiava. Era “curato”, cioè aiutante del parroco, nella centralissima parrocchia di Sant’Alessandro, dove svolgeva un’intensa attività tra i giovani, grazie anche al suo oratorio, al quale dedicava molto del suo tempo e delle sue energie. Era stimato per la sua pietà, amato per la sua carità, ammirato per la sua presenza rasserenante nei luoghi della sofferenza, dal letto degli infermi all’aiuto discreto a non pochi “nobili decaduti”.
Eppure aveva una ferita al cuore che non si rimarginava. Una ferita che veniva dalla sua fanciullezza.
Era nato in un quartiere popolare della città, nella parrocchia dei Santi Faustino e Giovita nel 1841 da famiglia povera. Mamma Regina era una di quelle mamme che aiutano a crescere forti i loro figli, perché non la danno sempre vinta. Ma scompare presto, quando Giovannino ha solo nove anni.
Povero e orfano di madre, con il padre piuttosto assente, vivacissimo e trascinatore, conosce i pericoli della strada, dalla quale è salvato dal suo oratorio, dove incontra guide esemplari.
Fa il garzone presso un materassaio che lo prende a benvolere e, preoccupato della sua salute, lo invia in vacanza a Vallio, dove è notato dal parroco don Pezzana, che lo avvia verso il sacerdozio, dandogli personalmente le prime lezioni e trovandogli benefattori che gli permettono di continuare negli studi.
Ordinato sacerdote nel 1865 sarà dato in aiuto proprio a don Pezzana, prima a Bedizzole, una parrocchia di campagna e poi in città a Sant’Alessandro.
Sono anni in cui porta con sé la sua ferita di ragazzo abbandonato a se stesso, una ferita che lo rende sensibilissimo a situazioni analoghe di ragazzi e giovani, che si perdono facilmente a causa del disinteresse altrui, dell’interesse pericoloso di adulti senza scrupoli, ragazzi che potrebbero fare bene se avviati sulla via del bene, che non possono mettere a profitto le loro capacità per mancanza di preparazione, che potrebbero essere delle colonne di una società più umana e cristiana, se accolti con amore da chi ha fede, se messi nelle condizioni di formare una propria famiglia, loro che non conoscono l’affetto di una famiglia.
Sa di essere povero, ma sente che quella di accogliere e formare i giovani poveri e abbandonati è la missione che il Signore gli affida. E prega di non essere un servo inutile o pigro.
Comincia a parlarne con l’amico don Pietro Capretti, che lo sostiene e l’aiuta generosamente.
Nasce così l’Istituto Artigianelli. Seguiranno poi la celebre Colonia Agricola di Remedello in collaborazione con l’agronomo Giovanni Bonsignori, considerato l’apostolo della nuova agricoltura. Verranno poi l’Editrice Queriniana , la Congregazione Santa Famiglia di Nazareth e, assieme a Madre Elisa Baldo, le Umili Serve del Signore.

Immerso nel terribile quotidiano
Si era messo su una via irta di triboli e spine, la via del terribile quotidiano che mette a dura prova la vita di buona parte delle persone: problemi economici assillanti, cose che non vanno come dovrebbero andare, difficoltà di convivenza con persone difficili, responsabilità educative nei confronti con ragazzi problematici, urgenza di aggiornarsi continuamente per non essere travolti dal progresso tecnologico, lotta con il proprio carattere non sempre facilmente domabile…
Scriverà verso la fine della sua vita: “Ho cominciato quest’opera e i contrasti e i dolori,le disillusioni e le indifferenze e gli abbandoni anche per parte di persone su cui si era fondato tutto l’appoggio morale e materiale, furono il mio pane quotidiano e continuano più che mai ad esserlo tuttora”.
“I dolori e le traversie d’ogni fatto, sono un pane avanzato dalla tavola di Gesù Cristo. Ed io in questi giorni, sto mangiandone la parte più dura”.
“Ma le opere di Dio non prosperano che all’ombra della croce ed anche a volere che esse diano frutti copiosi,conviene che noi le andiamo innaffiando dei nostri sudori, delle nostre lacrime e perfino del nostro sangue: basta guardare a Gesù” .
Come un padre non può abbandonare i suoi figli, così diventato Padre dei suoi ragazzi, affronta difficoltà e umiliazioni di ogni genere. Per ciascuno di loro deve creare un posto in refettorio,uno in officina, uno in studio, in dormitorio, in ricreazione, in chiesa.
Vive con loro e per loro, pensando al loro futuro di lavoratori preparati, di cristiani convinti, di cittadini onesti.


Le fonti del sapere e dell’azione per vivere la nobiltà del quotidiano
Le sue due fonti principali del sapere sono la Sacra Scrittura e la vita dei Santi.
1 suoi appunti di predicazione sono intessuti di citazioni della Parola di Dio che prende corpo e si rende visibile e feconda nella vita dei santi. “Dopo la Sacra Scrittura, non c’è pascolo più salutare delle vite dei santi”, ripeterà più volte.
Da San Benedetto comprese che a Dio si va con i piccoli ma costanti passi del quotidiano vissuto davanti a Dio con la preghiera e davanti agli uomini con il lavoro.
Da San Filippo Neri trasse la convinzione che una città potesse essere cambiata dedicandosi alla gioventù, con uno stile allegro ed esigente, che rendesse simpatica la virtù.
Da San Vincenzo de Paoli imparò a servire i poveri, vedendo Cristo in loro.
Da Santa Teresa apprese l’importanza delle preghiera prolungata che sfocia in opere,opere, opere.
Da San Francesco di Sales comprese l’arte della mitezza per toccare i cuori.
Da Sant’Ignazio di Loyola ammirò e praticò il dovere di trafficare tutti i propri talenti per la missione affidata, oltre che trarre le norme essenziali per reggere la sua Congregazione.
Da questi insegnamenti derivò una spiritualità atta a sorreggere e motivare la missione tra i giovani.
Da discepolo divenne maestro per la sua sintesi pratica e limpida, da trasmettere ai collaboratori, sacerdoti e laici.
Le due fonti della sua azione sono lo Spirito Santo e la diffidenza nei confronti di sé.
Egli sa che lo Spirito Santo crea futuro, trasforma le crisi in nuove opportunità, non fa guardare con nostalgia al passato, ma proietta con fiducia nel futuro, rendendo possibile anche quello che sembra impossibile. E, in certe manifestazioni, può essere chiamato col nome familiare di Provvidenza.
Quando intonava il Veni Creator, lo faceva con una voce tanto possente che sembrava “tirar giù” dal cielo lo Spirito Santo.
Ma l’umiltà gli impedisce di voler possedere il monopolio dello Spirito Santo e il senso del proprio limite lo induce a tenere un basso profilo, a confrontarsi con altri; si circonda di collaboratori, condivide le responsabilità, non fa il tuttologo.
Manifesta la sua umiltà soprattutto nell’obbedienza e nella gratitudine.
Compie gesti di eroica obbedienza, all’inizio dell’opera, quando il Vescovo gli chiedeva scelte che sembravano compromettere quanto stava per realizzare. Obbedì, lasciando fare a Dio, sapendo che Dio in questo modo fa abbandonare i nostri sentieri per immetterci sulle sue vie.
Considera la gratitudine, cioè il riconoscere l’apporto degli altri a quanto ha potuto realizzare, come “la massima virtù”, nella consapevolezza che tutto è dono e tutto va preso in rendimento di grazie
E mentre pratica e insegna la gratitudine verso benefattori e collaboratori, a partire dal Datore di tutti i beni, avverte che è necessario praticarla, ma non pretenderla.


La nobiltà del lavoro
Costatando che la povertà più pericolosa è quella interiore, che blocca sul presente, che smorza la fiducia e non proietta verso il futuro, ha inculcato ai suoi giovani l’ orgoglio di entrare nella nobiltà del lavoro, una nobiltà aperta a tutti quelli che vogliono costruirsi un domani con le loro capacità e con l’impegno dei loro talenti, accessibile a chi ha coraggio, a chi sa lottare, a chi ha nobiltà di sentimenti e un cuore magnanimo.
Nobiltà è fare bene il proprio lavoro, unendo competenza, onestà e cortesia
Nobiltà è non deprimersi nell’insuccesso, né esaltarsi nel successo
Nobiltà è essere fedeli alla parola data, pronti a chiedere perdono quando si sbaglia, pronti a concederlo quando è richiesto.
Nobiltà è saper guardare a Nazareth deve il Figlio di Dio ha reso santa la fatica dell’uomo con il suo sudore e la sua pazienza.
Insegna queste cose ai suoi ragazzi con le parole e con l’esempio, sempre in moto, ma senza affanno, sempre conteso, ma il più possibile allegro e sereno.

Le scalinate della sua bella Chiesa
Costruisce una bella chiesa, che svetta sugli altri edifici.
Al mattino prestissimo sale le gradinate, entra per primo nella sua chiesa e, solo si immerge per ore ( sì, per almeno tre ore) nella preghiera. Poi, rafforzato, scende le scale per incontrare ragazzi, collaboratori, insegnanti, maestri di officina,fornitori, tecnici, per ascoltare richieste di aiuto, per discutere su nuovi macchinari, per correre dietro alle cambiali che scadono, per parlare di Dio, del quale voleva mostrare il volto di Padre nella minuta realtà di ogni giorno.
Il suo tempo è inizialmente conteso tra pietas et labor, tra immersione nel divino e immersione nell’umano, tra salire le scale dell’intimità divina per avere poi la forza di discendere a servire l’uomo.
Col passare del tempo le due dimensioni si arricchiscono e si avvicinano fino a fondersi: una vita animata dalla preghiera e una preghiera che si concretizza nei campi dell’educazione, della formazione al lavoro e alla famiglia, nel seminare il Vangelo nel cuore di chi lo avvicina..
Questa rara sinergia tra impegno umano e fiducia nella Provvidenza, sarà sorgente di creatività: l’Istituto Artigianelli preparerà abili tipografi, artigiani e artisti del ferro e del legno, meccanici ed elettricisti. E anche buoni cristiani.
La Colonia agricola di Remedello sarà un faro per l’agricoltura del suo tempo, oltre che un aiuto ai parroci a promuovere la classe contadina, attraverso il periodico La famiglia agricola.
La Queriniana diventerà inizialmente la tipografia della florida stampa cattolica di Brescia, poi una editrice che allargherà progressivamente i suoi orizzonti.
Nel 1902 sarà approvata la Congregazione maschile, intitolata alla Famiglia di Nazareth, che esprime eloquentemente la sua preoccupazione per la famiglia, ma anche l’ideale di una convivenza familiare dei suoi collaboratori e del suo stile di educazione.
Con Madre Elisa Baldo darà origine verso la fine della sua vita anche alla Congregazione femminile, che prenderà il nome “Umili Serve del Signore”.
E come la sua presenza inciderà nella società bresciana del suo tempo, così i suoi continuatori porteranno il suo spirito, fonte di evangelica intraprendenza, in varie parti dell’America Latina e dell’Africa.
Muore il 25 aprile 1913. Il Vescovo di Brescia scriverà ai confratelli: “Voi avete perso un padre, io un amico, la diocesi un santo prete”.
La stampa laica lo considera un insigne benefattore che ha dato alla città le maestranze più qualificate, i suoi ragazzi lo ricordano come un condottiero dal cuore di mamma, i suoi figli spirituali un Padre affettuoso e illuminato.
E la Chiesa, a cento anni dalla morte, lo proclama santo, facendone uno dei maestri per il nostro tempo.

Un bilancio fatto da un grande Vescovo
In occasione del XXV dell’Istituto Artigianelli, monsignor Bonomelli, Vescovo di Cremona, suo insegnante, confidente e amico, scriveva ai confratelli:
“Quali prodigi di carità, di prudenza, di destrezza, di zelo veramente cristiano Padre Giovanni Piamarta ci ha mostrato nel corso di mezzo secolo di vita operosissima!
Egli è il sacerdote che richiedono i tempi nuovi: noncurante di sé, solo inteso al bene altrui senza distinzione, specialmente della gioventù.
Alieno dalle lotte partigiane e politiche, pronto a stendere le mani amiche a quanti amano il bene, a dimenticare le offese e vendicarsi con i benefici: nacque povero, visse povero e povero ha valicato i settanta anni.
Con raro esempio raccolse le simpatie e l’affetto di tutti, senza ombra di partito.
Quanti giovani ha ricondotto sulla retta via! Quante lacrime ha asciugate! Quanti genitori ha consolati, restituendo loro i figli riabilitati con il lavoro e con la pietà cristiana”.
Un vero maestro per il nostro tempo, che aiuta a scoprire la nobiltà del quotidiano, riscattato dal lavoro, elevato dalla preghiera, trasfigurato dall’amore.

P. Pier Giordano Cabra

sabato 10 marzo 2012

400 - PADRE PIAMARTA EDUCATORE AL LAVORO E ATTRAVERSO IL LAVORO.

Il grande vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, amico ammiratore di Padre Giovanni Piamarta (1841-1913), così conclude una sua lettera: “Piamarta è il prete dei tempi moderni ! Quanti giovani ha ricondotto sulla retta via! Quante lacrime ha asciugate! Quanti genitori ha consolati, restituendo loro i figli riabilitati con il lavoro e con la pietà cristiana”.
Il Vescovo sottolinea. in Padre Piamarta, la forza riabilitante del lavoro, della sua potenzialità di ricostruzione della persona del giovane specie se associata alla pietà cristiana.
D’altro canto i suoi ragazzi, diventati padri di famiglia, confermavano le parole del vescovo Bonomelli, quando gli scrivevano “per esprimere il debito di incancellabile riconoscenza per i saldi principi, la saggia parola,il suo esempio, la vita esemplare, per i benefici ricevuti, per i mezzi d’imparare un mestiere”.
Piamarta non è un teorico dell’educazione, ma un educatore che riflette sulla sua peculiare missione di dare dignità attraverso il lavoro a giovani che partivano sfavoriti nella vita.
Ma dalla sua prassi e dai suoi scritti sparsi, si possono tracciare almeno tre indicazioni:
-la prima è un’educazione che parte dal lavoro
-la seconda è l’educazione che conduce alla valorizzazione del lavoro
-la terza è sui ruoli educativi
-Si possono segnalare le sue "fonti segrete"
Lo possiamo fare riportando tre pagine del suo “diario ideale”, di recente pubblicazione:
1.Un itinerario ideale di educazione a partire dal lavoro.
1. I miei ragazzi la prima cosa che capivano era il lavoro. Non che fossero tutti fanatici del lavoro, ma è certo che il lavoro ben fatto li gratificava e soprattutto comprendevano che avrebbe permesso loro di farsi una posizione dignitosa nella vita
Occorreva certo avviarli al lavoro per i quali erano tagliati, perché buona parte della buona riuscita nella vita è fare il lavoro che piace, o, forse meglio, quel lavoro che è più conforme ai talenti ricevuti.
2. Dal lavoro viene lo studio: anche se qui agli Artigianelli i libri all’inizio non erano molto popolari, tuttavia non è stata un’impresa ardua far comprendere come lo sviluppo tecnico presupponga non solo abilità manuale ma anche un bagaglio sempre più corposo di nozioni teoriche.
3. La fatica e la perseveranza necessaria per ottenere dei buoni risultati, aiutava a mettere in evidenza la necessità di formarsi un carattere forte, che non si lascia demoralizzare dalle piccoli e grandi difficoltà, ma che permette di diventare grandi nelle difficoltà.
Quanti ragazzi hanno raggiunto alti traguardi, pur partendo da condizioni sfavorevoli, per il fatto di non lasciarsi piegare dalle condizioni avverse. Un carattere tenace, non lamentoso, che non scarica sempre le colpe sugli altri, che non si lascia abbattere facilmente, che cerca sempre soluzioni alternative, è garanzia di buona riuscita nella vita.
4. Il passo che viene logico è la necessità di formarsi una coscienza che dice che non tutto quello che si desidera è buono, che non tutto quello che è possibile fare, può o deve essere fatto. E’ la formazione all’onestà, a non approfittare della posizione di vantaggio per rovinare l’altro, al tener presenti i bisogni e le difficoltà altrui. Se uno ha più doti di un altro per questo non deve sentirsi superiore e umiliare o affamare l’altro.
In un mondo di furbi, l’onestà è assai probabilmente la furbizia più lungimirante.
5. Alla base di tutto ci sta poi la formazione religiosa che illumina e affina la coscienza, la quale, sapendo di dover rendere conto a Dio, agisce guidata da criteri di umanità e di carità, che vanno ben oltre quelli della nuda giustizia. E tendono a promuovere la fraternità che è ciò che rende vivibile e amabile l’umana avventura.
Mi piaceva ripetere: “Chi si inginocchia davanti a Dio, può camminare a testa alta in mezzo agli uomini. Il santo timor di Dio, fa perdere la paura degli uomini”.
6. E infine, ho sempre combattuto la mediocrità, assunta come progetto di vita, per convincere che il progetto di Dio su di noi è la santità, la quale passa anche attraverso il desiderio di fare bene ogni cosa, il che rende contenti, fa contenti gli altri, ed è anche rasserenante perché non ci si sente soli nella vita.
Il regalo dei miei carissimi ex alunni è proprio quello di confermarmi che li ho aiutati a vivere da uomini e, molti, anche da buoni cristiani.
Penso che sia proprio lo Spirito Santo che ha operato nella mia missione, perché tutto questo ho dovuto inventarlo, cammin facendo, senza alcuna preparazione specifica se non quella del Vangelo.
Ma non è il Vangelo la più possente forza propulsiva della costruzione di un’umanità più umana?”

2. Educare al lavoro
“Ogni giorno, quando passo a visitare le officine dei tipografi, fabbri, falegnami, sarti, panettieri, calzolai ecc., il mio cuore si riempie di gioia nel vedere tanti ragazzi che si preparano alla vita
Il pensiero che molti di essi sono stati tirati fuori dalla strada e da ambienti malsani corporalmente e spiritualmente, mi ripaga assai dei notevoli sacrifici che dobbiamo affrontare per loro.
Il quotidiano contatto con la loro fatica nell’ apprendere bene un mestiere, mi obbliga a spiegare il significato del lavoro, che sarà parte essenziale della loro esistenza.
Oggi ci sono concezioni parziali del lavoro, che non soddisfano, perché non rispondono alla realtà.
Ci sono coloro che lo esaltano, al punto di dimenticare la fatica e le delusioni che spesso lo accompagnano. A quelli che dicono: “Il lavoro nobilita l’uomo” i miei ragazzi più birbanti rispondono, ridacchiando:”Ma lo rende simile alla bestia”.
D’altro lato ci sono coloro che mettono in risalto solo gli aspetti negativi, citando magari il detto .biblico:”Guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”. Il che è vero, ma non è tutto.
Il lavoro è anche miglioramento della persona, è occasione di scoprire e di applicare le proprie capacità, è fonte di soddisfazione quando è ben fatto.
Attraverso il lavoro ci si realizza, specie quando il lavoro corrisponde alle proprie attitudini.
Oltre alla realizzazione personale, mi piace presentare il lavoro come contributo al miglioramento della società. Il grande progresso al quale stiamo assistendo è frutto del lavoro sempre più perfezionato. L’intelligenza applicata al lavoro ha creato macchine che lo rendono meno faticoso...
Ma non sempre le cose sono così scorrevoli. Il lavoro va apprezzato, ma quando non da nessuna soddisfazione? Quando non è riconosciuto? Quando non piace?
E i contrasti sul lavoro? Le ingiustizie? Le lotte? Gli odi? Le gelosie? Le rivalità? A Nazareth
Quando penso a queste cose il mio cuore corre a Nazareth,perché a Nazareth si trova il vero senso del lavoro. A Nazareth si lavora, si vive sotto lo sguardo di Dio e ci si vuol bene.
A Nazareth si lavora: Giuseppe insegna un lavoro al Creatore di tutte le cose.
Posso dire con orgoglio ai miei ragazzi che Gesù riceve una formazione ‘artigianale”, é un “artigianello”, è un tecnico che nella bottega di Giuseppe ha vissuto la maggior parte della vita sotto lo sguardo di Dio, crescendo in età, sapienza e grazia, imparando un mestiere e guadagnandosi il pane col sudore della fronte.
“Con ciò le varie condizioni di vita, i vari uffici, tutti i mestieri, sono nobilitati, ingentiliti e consacrati, dall’averne partecipato l’uomo-Dio, il quale, avendo scelto il più umile, con questo suo fatto relativizzò le invidiate grandezze del mondo e conferì invece valore alle cose poco apprezzate”.
Il Figlio di Dio è cresciuto come uomo lavorando, per mostrare come l’uomo che lavora può
crescere nella statura di Figlio di Dio. Il lavoro, che fa parte della vita umana, lo innalza ad altezze vertiginose quando è unito alla volontà del Signore, perché,come dice S. Agostino, permette al “divino Architetto di costruire una casa eterna, attraverso impalcature provvisorie”.
A Nazareth inoltre ci si vuol bene, si collabora, ci si aiuta, si è solidali.
Anche questo è espressione della volontà di Dio, il quale vuole che si cresca nell’amore reciproco.
Lavorando dunque con competenza e onestà, nell’ accettazione delle difficoltà, in solidarietà con chi fatica con noi, vestiamo la nobile livrea dei figli di Dio che collaborano con il Padre onnipotente creatore del cielo e della terra, il quale vuole costruir una dimora eterna per noi attraverso il nostro lavoro di costruttori di impalcature che passano.

3. La divisione dei compiti educativi
“Non mi sono mai piaciute le dispute, nelle quali si compiace il nostro secolo, e dove chi lavora di meno sembra aver più tempo per pensare a come imporsi di più.
Le ho evitate il più possibile, anche perché c’è sempre il pericolo di far prevalere l’amor proprio sull’amore alla verità, oltre al pericolo di mancare alla carità.
Ma qualche volta l’amore per la verità e la difesa dei miei confratelli mi ha spinto a prendere in mano la penna e mettere le cose in chiaro.
Devo avere già accennato alle difficoltà con il dottissimo sacerdote don Baizini, inviato alla Colonia di Remedello per aiutare Padre Bonsignori nella formazione spirituale degli alunni.
Io non ho neppure un decimo della sua scienza, ma non potevo accettare le sue osservazioni dettate probabilmente da una visione troppo teorica della realtà di oggi.
La cultura è obbligata a misurarsi con la dura realtà quotidiana, dove le “belle” idee valgono nella misura in cui servono a interpretare o a cambiare la realtà.
Una svalutazione delle realtà umane.
Il dotto sacerdote rimproverava l periodico La Famiglia agricola di non educare il popolo perché gli articoli del Bonsignori e del Longinotti, pur eccellenti dal punto di vista tecnico scientifico, non contenevano nemmeno “mezza frase di spirituale” e che gli articoli volti all’educazione morale dei contadini, ad allontanarli dall’abuso del vino, dal cattivo uso del denaro e così via, non sembravano ispirati alla morale cristiana, quanto piuttosto ad una morale naturale e laica.
Lo stesso mi scriveva: “Ci vuole molta dose di asineria giornalistica e grande ignoranza del cuore umano, per non capire che ci vuole ben altro per allontanare i contadini dall’uso del vino, dallo sprecare il denaro, dal rubare”.
Questo mi è sembrato un attacco all’impegno di dare risalto alle cause seconde, senza oscurare la Causa Prima, per unire tecnica e religione, aggiornamento scientifico e maturazione spirituale, stima delle realtà naturali e affermazione delle realtà soprannaturali.
In nome del soprannaturale svalutava il naturale: un errore di prospettiva opposto ma analoga, a quella di coloro che in nome del naturale svilivano il soprannaturale.
I campi sono distinti anche se convergenti. A ciascuno il suo: ai tecnici spetta di illuminare sulle competenze professionali, mentre ai formatori religiosi spetta l’illustrazione delle realtà eterne.
“La missione, concludevo la mia lettera insolitamente lunga. è duplice, di ordine diverso, ma mira ad un identico scopo finale”.
Dobbiamo aver fiducia nella ragione e nella volontà umana rafforzate dalla grazia, per rispettare la creazione che non viene cancellata , ma elevata, dal Dio redentore.
Se i due piani vanno distinti, non vanno opposti, per non dividere fede e ragione, come vorrebbero coloro che in nome della ragione vogliono cancellare la fede.
L’educazione è fatta anche di equilibrio, di buon senso, di gradualità, di fiducia nelle potenzialità del giovane quando è sorretto dalla grazia del Signore, di paziente attesa.
E’ una vera arte, dove il meglio astratto è nemico del bene concreto-Illumina Signore me e i miei collaboratori nell’educazione.“

4. Le fonti
Le fonti alle quali P.Piamarta ha attinto non sono le teorie pedagogiche, ma quelle più modeste e forse più impegnative dei santi. Da buon bresciano era più colpito dall’esemplarità che dalle teorizzazioni.
In questo settore si possono ricordare tre Maestri-esemplari, come punti di riferimento: Benedetto, Ignazio di Loyola, Filippo Neri
Perché il lavoro sia cristiano, occorre unire la “mistica del lavoro che trasforma la persona” (Benedetto) alla”mistica del lavoro che trasforma il mondo” (Ignazio), in un clima di serenità e di gioia (Filippo Neri).
a)Benedetto e la perfectio operantis
Il lavoro, nella tradizione benedettina, è visto come ascesi, come mezzo per salire a Dio.
Il lavoro deve essere “regolato”, dal capriccio disordinato ad una ratio ordinata, alla collaborazione, in obbedienza.
Infatti a Dio si va con i passi della ferialità, della quotidianità orientata a Dio.
Benedetto si concentra sulla causa prima di fronte alla quale si vive l’esistenza quotidiana,fortiter, fideliter, feliciter.
“Voi siete i benedettini dell’era moderna” dichiarava ammirato l’abate Caronti, nella visita apostolica in vista dell’ approvazione della Congregazione S.Famiglia di Nazareth, voluta anni prima da P.Piamarta.
Del resto l’Istituto Artigianelli sorgeva su un terreno che, per più di mille anni, era parte della celebre abbazia benedettina di Santa Giulia, un luogo dove il binomio, ora et labora, pietas et labor hanno costituito un programma formidabile per la ricostruzione della civiltà occidentale.

b) Ignazio di Loyola: nella cultura umanistica rinascimentale cresce l’attenzione per la cause seconde, che dà importanza all’ oggettività del lavoro ben fatto, espressione della capacità dell’uomo, della sua virtus.
Da qui la valorizzazione della professionalità e della competenza. Si parla di perfectio operis. Importante per il miglioramento e l’umanizzazione del creato, che va continuamente “ordinato” dall’impegno dell’uomo.

c)Filippo Neri sottolinea il lato gioioso della vita cristiana, al quale dà grande contributo la festa e l’allegria quotidiana.
In P. Piamarta ’impegno per organizzare le grandi feste era pari all’impegno dell’organizzazione del lavoro. Soleva ripetere che “di festa in festa, si va in Paradiso”: la festa fa parte della pietas, dell’orientamento, del senso della vita, che è destinata a sfociare nella grande festa eterna.
Nella festa si interpreta il lavoro quotidiano, si dà un’anticipazione di quello che ci attende.
Alla base c’è la visione benedettina: lo splendore della liturgia parla del risultato ultimo del lavoro: si vive per fare festa più di quanto non si faccia festa per lavorare.
Ripresa e reinterpretata dai gesuiti, con la festa barocca: la festa in chiesa non deve essere da meno della profana. Anzi la festa deve cominciare in chiesa, una festa allegra, paradisiaca, barocca.
S. Filippo Neri vuole trasformare la vita quotidiana in una festa, con la scoperta della bellezza della vita cristiana, fonte di allegria.
Per questo occorre diffondere l’allegria attraverso il gioco, la musica, il teatro, la gioia della buona coscienza e dell’essere amici del Signore.
Coll’ occupare il tempo libero facendone il “tempo dell’allegria”, col nobilitare il quotidiano con il lavoro ben fatto, con la festa solennizzata che proietta e anticipa il futuro positivo.

Conclusione
P. Piamarta educa attraverso il lavoro e al lavoro, ma immettendo il lavoro nel complesso della realizzazione dell’uomo nel suo cammino verso Dio.
Nessuna idolatria del lavoro, ma anche valorizzazione del lavoro, fonte di sostentamento, di realizzazione personale, di miglioramento del mondo, di santificazione.
Per questo si rifà ai grandi maestri della tradizione cristiana, che hanno preso sul serio l’importanza del lavoro, a partire dal Maestro, che prima imparò la dura lezione del lavoro a Nazareth, per poterla poi diffondere nel corso dei secoli.
E ne ha acquistato in semplicità e incisività.
padre Piergiordano Cabra

venerdì 9 marzo 2012

399 - 3^ DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) - 11 Marzo 2012

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,13-25)

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.


Commento

Una visita sul sito del Tempio nella Gerusalemme attuale dà un’idea della sacralità del luogo agli occhi del popolo ebreo. Ciò doveva essere ancora più sensibile quando il tempio era ancora intatto e vi si recavano, per le grandi feste, gli Ebrei della Palestina e del mondo intero. L’uso delle offerte al tempio dava la garanzia che la gente acquistasse solo quanto era permesso dalla legge. L’incidente riferito nel Vangelo di oggi dà l’impressione che all’interno del tempio stesso si potevano acquistare le offerte e anche altre cose. Come il salmista, Cristo è divorato dallo “zelo per la casa di Dio” (Sal 068,10). Quando gli Ebrei chiedono a Gesù in nome di quale autorità abbia agito, egli fa allusione alla risurrezione. All’epoca ciò dovette sembrare quasi blasfemo. Si trova in seguito questo commento: “Molti credettero nel suo nome. Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti”. Noi dobbiamo sempre provare il bisogno di fare penitenza, di conoscerci come Dio ci conosce. Il messaggio che la Chiesa ha predicato fin dall’inizio è quello di Gesù Cristo crocifisso e risorto. Tutte le funzioni della Quaresima tendono alla celebrazione del mistero pasquale. Che visione straordinaria dell’umanità vi si trova! Dio ha mandato suo Figlio perché il mondo fosse riconciliato con lui, per farci rinascere ad una nuova vita in lui. Eppure, a volte, noi accogliamo tutto ciò con eccessiva disinvoltura. Proprio come per i mercati del tempio, a volte la religione ha per noi un valore che ha poco a vedere con la gloria di Dio o la santità alla quale siamo chiamati.

mercoledì 7 marzo 2012

398 - BEATO GIOVANNI PIAMARTA: EDUCATORE DEI GIOVANI.



Per conoscere la vita e le opere di padre Piamarta clicca qui:

venerdì 2 marzo 2012

397 - 2^ DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) - 04 Marzo 2012

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 9,2-10)

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Commento

La trasfigurazione occupava un posto importante nella vita e nell’insegnamento della Chiesa primitiva. Ne sono testimonianze le narrazioni dettagliate dei Vangeli e il riferimento presente nella seconda lettera di Pietro (2Pt 1,16-18). Per i tre apostoli il velo era caduto: essi stessi avevano visto ed udito. Proprio questi tre apostoli sarebbero stati, più tardi, al Getsemani, testimoni della sofferenza di nostro Signore. L’Incarnazione è al centro della dottrina cristiana. Possono esserci molti modi di rispondere a Gesù, ma per la Chiesa uno solo è accettabile. Gesù è il Figlio Unigenito del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero. La vita cristiana è una contemplazione continua di Gesù Cristo. Nessuna saggezza umana, nessun sapere possono penetrare il mistero della rivelazione. Solo nella preghiera possiamo tendere a Cristo e cominciare a conoscerlo. “È bello per noi stare qui”, esclama Pietro, il quale “non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. La fede pone a tacere la paura, soprattutto la paura di aprire la nostra vita a Cristo, senza condizioni. Tale paura, che nasce spesso dall’eccessivo attaccamento ai beni temporali e dall’ambizione, può impedirci di sentire la voce di Cristo che ci è trasmessa nella Chiesa.